Cambio di regime per l’inflazione: verso un ritorno dell’attivismo fiscale
La politica monetaria dovrà rimanere concentrata a controllare l’inflazione
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L’inflazione elevata rimane un punto focale per gli investitori. Prevediamo che nei prossimi 12-18 mesi le banche centrali riusciranno a domarla. Tuttavia, non ci aspettiamo un ritorno al periodo successivo alla crisi finanziaria globale, quando i policymaker faticavano a generare un’inflazione sufficiente a raggiungere i loro target. Immaginiamo, invece, una fase di inflazione più alta e volatile. I venti contrari che hanno pesato sui prezzi stanno svanendo e stiamo entrando in un nuovo regime caratterizzato da carenze sul lato dell’offerta e da aumenti dei prezzi più frequenti.
In questo nuovo regime la politica monetaria dovrà rimanere concentrata a controllare l’inflazione, lasciando potenzialmente spazio alla politica fiscale per gestire la crescita, o la mancanza della stessa.
Tuttavia, il percorso verso un maggiore attivismo fiscale è impegnativo e rischia di creare seri conflitti con le banche centrali e i mercati, come testimoniato nel Regno Unito dopo la recente debacle del “mini-budget”. Di conseguenza, un maggiore attivismo fiscale potrebbe comportare altri cambiamenti più radicali del quadro politico.
Il ritorno del “big government”, l’ascesa del populismo e il cambiamento delle priorità politiche
L’esperienza della pandemia è stata un fattore chiave del ritorno all’attivismo fiscale. I recenti pacchetti di sostegno all’energia sono un altro esempio di intervento riuscito. Il ritorno del “big government” ha portato molti a chiedere che le autorità siano più attive in altri settori e più disposte a utilizzare la spesa pubblica per risolvere i problemi.
L’esperienza della pandemia sembra aver incoraggiato i populisti e i partiti anti-establishment, che stanno recuperando parte dello slancio che avevano perso all’inizio della crisi sanitaria. L’Italia, ad esempio, è stata precoce in questa tendenza, con la coalizione di partiti di destra guidata da Giorgia Meloni.
La politica monetaria è diventata meno efficace e più politica
Il desiderio di un approccio fiscale più attivo riflette anche il crescente malcontento nei confronti della politica monetaria, che dopo anni di spinta, sembra aver perso efficacia. Inoltre, mentre la distribuzione della ricchezza si è sbilanciata verso la fascia alta, è aumentata la pressione sulle fasce a più basso reddito, anche a causa di cambiamenti più ampi nell’economia mondiale, come la crescente globalizzazione e la maggiore adozione della tecnologia.
Sebbene questi fattori esulino dal campo di applicazione della politica monetaria, hanno aumentato l’insoddisfazione per l’andamento dell’economia e stanno alimentando la richiesta di un cambiamento di rotta, accrescendo l’appeal dei partiti populisti.
Nonostante ciò, ci aspettiamo che le banche centrali riusciranno a ripristinare una parvenza di stabilità dei prezzi nel 2023, anche se l’inflazione si rivelerà più difficile da controllare nel nuovo regime: le sfide per la globalizzazione, dovute alla geopolitica e a una maggiore attenzione alla sicurezza delle catene di approvvigionamento, e la risposta sempre più rapida al cambiamento climatico dovrebbero avere effetti inflazionistici.
Di conseguenza, il cambio di regime significherà che la politica monetaria darà la priorità al controllo dell’inflazione, lasciando potenzialmente spazio all’attivismo fiscale per gestire la crescita. L’equilibrio tra politica monetaria e fiscale è destinato a spostarsi da una combinazione di politica monetaria allentata e politica fiscale restrittiva, verso una politica monetaria restrittiva e una politica fiscale allentata.
Tuttavia, come anticipato, il percorso verso un maggiore attivismo fiscale è impegnativo e potrebbe comportare altri cambiamenti forse radicali del quadro politico.
L’elevato indebitamento potrebbe creare un conflitto tra governi, mercati e banche centrali
Come ha scoperto a sue spese il precedente governo britannico con il mini-budget dello scorso settembre, sostituire la politica monetaria con una politica fiscale espansiva per stimolare la crescita non è semplice.
Il problema è reso più acuto dall’elevato livello del debito pubblico, per cui un aumento dei tassi di interesse e del costo del prestito può rappresentare un vincolo significativo per la spesa pubblica. I dati del FMI mostrano che il rapporto debito pubblico/PIL per il G20 avanzato è salito a oltre il 130% nel 2020, con un aumento di oltre il 20% rispetto al 2019. Il fenomeno si sta ora attenuando e il rapporto debito/PIL dovrebbe stabilizzarsi intorno al 125% per il G20 avanzato, secondo il FMI.
In combinazione con il passaggio a un nuovo regime di tassi d’interesse più elevati, il costo del debito pubblico aumenterà in futuro. I dati del FMI indicano che per il G20 il costo degli interessi passerà dal minimo di poco più dell’1% del PIL dello scorso anno all’1,5% di quest'anno e a quasi il 2% entro il 2025. Il recente aumento dei rendimenti dei titoli di Stato a livello globale suggerisce che questo valore potrebbe essere raggiunto più rapidamente e risultare più elevato.
Percorsi per una politica fiscale attiva: lavorare all’interno del sistema esistente, o cambiarlo
Con il nuovo regime, i governi metteranno alla prova i limiti del loro spazio fiscale. Molti decideranno che un maggiore indebitamento pubblico per le priorità politiche vale il prezzo di tassi di interesse più elevati. Oltre alla spesa per la salute, ciò potrebbe includere maggiori investimenti nelle aree in cui la produttività è in ritardo, combinati con un aumento della spesa per la mitigazione e lo sviluppo di tecnologie per contrastare il cambiamento climatico.
Questo non è affatto un punto di vista universale. Se l’aumento dei tassi di interesse si rivelasse un vincolo eccessivo, le autorità potrebbero pensare a una maggiore tassazione e a politiche più ridistributive per ridurre il deficit di bilancio. Tuttavia, se nessuna di queste soluzioni sarà considerata accettabile, l’alternativa sarà più radicale, nel tentativo di cambiare il sistema esistente.
Cambiamenti radicali: controllare i vigilantes del mercato obbligazionario
L’approccio potrebbe essere di aumentare la repressione finanziaria e controllare i mercati obbligazionari in modo tale che i vigilantes non siano in grado di spingere i rendimenti verso l’alto. In un certo senso, ciò è già avvenuto con il QE, dove gli acquisti di titoli di Stato da parte delle banche centrali hanno contribuito a tenere sotto controllo i rendimenti e la percentuale di obbligazioni a rendimento negativo ha raggiunto quasi il 30% del mercato globale.
Invece del QE, questa volta si potrebbe ricorrere alla regolamentazione per indirizzare i fondi verso il mercato obbligazionario, ad esempio aumentando gli obblighi per gli istituti di investimento di detenere più titoli di Stato. Tuttavia, indebolendo la disciplina di mercato in questo modo, il rischio di un aumento dell’inflazione sarebbe maggiore e ciò potrebbe implicare una modifica del mandato delle banche centrali. Ad esempio, aumentando l’obiettivo di inflazione o adottando un doppio mandato più esplicito di obiettivi di inflazione e occupazione. La misura finale sarebbe la revoca dell’indipendenza della banca centrale e la ripresa del controllo della politica monetaria da parte delle autorità.
Naturalmente, ognuna di queste misure provocherebbe una violenta reazione da parte dei mercati finanziari e il rischio è che, di fronte a uno sconto sui rendimenti delle loro obbligazioni, gli investitori internazionali riducano il loro sostegno e in alcuni casi vendano, colpendo così la valuta. Le economie in deficit di partite correnti e quindi dipendenti dalla “gentilezza degli estranei” sarebbero particolarmente vulnerabili. Si renderebbero quindi necessarie altre forme di controllo finanziario, come i controlli sui capitali.
Quando tutte le economie erano impegnate nella repressione finanziaria attraverso il QE, gli investitori non avevano altra scelta che accettare la riduzione dei rendimenti. In un nuovo regime di tassi più alti e liquidità minore, sarebbe più difficile per i singoli Paesi perseguire politiche di repressione finanziaria indipendenti. Solo quelli con i finanziamenti interni più solidi sarebbero in grado di farlo, come ha dimostrato, ad esempio, il Giappone, anche se oggi si trova a cambiare rotta e ad accettare tassi di interesse più elevati.
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